5 Agosto 2025
OSPEDALE SANATORIALE – EX OSPEDALE SAN CAMILLO DE LELLIS | CHIETI
Introduzione
La tubercolosi ha arrecato all’umanità danni importanti sia in termini di morbilità che di mortalità.
Per comprendere l’importanza che i sanatori hanno assunto nella lotta alla malattia conviene tratteggiarne brevemente la storia e il diverso immaginario che nei secoli si è costruito intorno a essa. La natura contagiosa della malattia, che dal 1882 sappiamo essere causata dal batterio Mycobacterium tubercolis, non fu a lungo riconosciuta. Troviamo alcuni riferimenti alla tubercolosi già nei testi classici, a partire dalla prima menzione contenuta nelle storie di Erodoto (Φθισις, ‘consunzione’), alla più approfondita descrizione clinica che ne fa Ippocrate.
Nel Medioevo la tubercolosi comporta uno stigma sociale e alimenta diverse macabre fantasie. In alcuni testi assume le sembianze di un demone dall’aspetto di un cane, che si impossessa del corpo degli ammalati per mangiarne i polmoni; la tosse dell’ammalato è l’animale che sta abbaiando e il sintomo che la morte è ormai vicina. Si diceva anche che gli ammalati fossero usati dalle streghe per raggiungere i sabba ogni giovedì notte: “cavalcati dalle streghe”, e per il grande sforzo di trasportarle sulle loro spalle durante la notte erano sempre stanchi, smunti ed emaciati. Per una particolare forma di tubercolosi dei gangli linfatici del collo, comunemente nota come ‘scrofolosi’, tra XIII e XVIII si diffonde la credenza che il tocco del re fosse taumaturgico e capace di curare tumefazioni e lesioni. A esercitare questo potere erano soprattutto i re di Francia e d’Inghilterra, tanto che per secoli questa malattia fu anche nota come Mal du Roi e The King’s evil. L’incidenza della tubercolosi raggiunse il suo picco tra XVIII e XIX secolo, con le prime manifestazioni proto-industriali, e la conseguente nascita di un proletariato urbano costretto a vivere in condizioni igieniche precarie in alloggi piccoli e sovraffollati; la tbc si afferma come malattia sociale per la nuova società industriale. Fu in questo periodo che si cominciò ad ipotizzare che vi fosse un agente patogeno alla base della malattia.
L’Ottocento fu il secolo del cambiamento. “Il male del secolo” continuò a diffondersi ma passò dall’essere un morbo considerato socialmente stigmatizzante a essere una malattia (anche) delle classi agiate; “il mal sottile”, come era pure definito, entra a far parte dell’immaginario culturale e letterario collettivo come una “malattia romantica”, che si credeva concedesse al malato sensibilità e purezza spirituale. Ne ritroviamo molteplici esempi nell’arte e nella letteratura del tempo.
L’Ottocento è anche il secolo nel quale avvengono le scoperte scientifiche e mediche più significative, dall’invenzione dello stetoscopio per l’auscultazione polmonari al radiografo a, soprattutto, il riconoscimento dell’agente causale della malattia, individuato nel 1882 dal dott. Robert Koch, medico batteriologo e microbiologo prussiano. Supportata dal definitivo riconoscimento della natura contagiosa della tubercolosi nasce l’idea di creare istituzioni dedicate per ospitare i malati: i sanatori.
Le politiche sociosanitarie del Ventennio
Negli anni del fascismo la legislazione in ambito sociosanitario, già avviata in Italia dallo stato unitario negli ultimi decenni dell’Ottocento, subisce un forte impulso. Le politiche di tutela della salute si pongono al centro dei programmi nazionali di rafforzamento delle istituzioni statali. Una delle problematiche significative affrontate dal regime è la diffusione, ancora piuttosto cospicua, della malattia tubercolare. In Italia, in particolare, l’incidenza della tubercolosi si rivela particolarmente devastante subito dopo la Prima guerra mondiale, con un aumento marcato della mortalità. Nel 1927 venne istituito il primo osservatorio epidemiologico, allo scopo di controllare l’andamento dell’infezione e di attuare le conseguenti profilassi, e fu promulgata l’Assicurazione Obbligatoria contro la tubercolosi, previo versamento di una quota alla Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (CNAS), cui spettava il compito di sostenere l’assicurato che avesse contratto il morbo. Con un’attenzione particolare alla prevenzione delle malattie infantili, vengono realizzate iniziative sociali di grande importanza: stazioni elioterapiche, colonie parascolastiche, colonie marine e montane istituite al fine di combattere la tubercolosi nell’infanzia, la cui apertura trovava ampia eco negli organi di stampa. Le immagini di bambini distesi al sole durante i mesi estivi lasciano intuire come fosse ormai chiaro nella mentalità comune che l’allontanamento dalle abitazioni insalubri, il pranzo quotidiano e gli esercizi fisici avessero certamente un effetto benefico sulla salute. Anche l’immagine della donna si trasforma: dall’aspetto evanescente della donna nell’Ottocento si giunge all’iconografia di una donna robusta, con fianchi larghi, pronta a partorire figli sani e a sostenere con il lavoro famiglie numerose, come pure viene evidenziato nei manifesti sanitari della lotta alla tubercolosi.
Parallelamente, fra i medici più accorti, emerge l’idea della necessità di creare una “task force” antitubercolare. Si sviluppa dunque un piano di edilizia ospedaliera, che porta alla costruzione di moderni sanatori su tutto il territorio nazionale.
Figura centrale di questa iniziativa è il tisiologo Eugenio Morelli (Teglio, 1881 – Roma, 1960). Nominato “alto consulente medico” della CNAS e direttore della Clinica della tubercolosi e delle malattie respiratorie di Roma, Morelli sovrintende all’applicazione della legge sull’Assicurazione Obbligatoria contro la tubercolosi e utilizza le risorse disponibili per creare una rete di istituti di cura a livello nazionale. Nel 1933 la CNAS viene sostituita dall’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale, progenitore dell’attuale INPS. I sanatori si diffondono su tutto il territorio, dalle pianure alle montagne, offrendo un significativo impulso alla lotta contro la tubercolosi. Essi rappresentano il segno del diritto universale alla salute, perseguito con determinazione da medici e architetti, nella comune convinzione che fosse necessario creare strutture ospedaliere radicate nel territorio, funzionali e accessibili a tutti.
La costruzione della rete sanatoriale italiana
All’inizio degli anni Venti dello scorso secolo, e poi fino al secondo dopoguerra, il ricovero in sanatorio era considerato
l’unico trattamento disponibile per la cura della tubercolosi polmonare. Nonostante fosse già nota la causa biologica della
malattia, identificata nel 1882 nel bacillo di Koch, il rimedio antibiotico capace di sconfiggere l’agente patogeno sarebbe stato sviluppato solo nei primi anni Cinquanta.
La terapia sanatoriale era di natura palliativa e mirava a gestire i sintomi e rafforzare le difese immunitarie attraverso il metodo della triade “aria – riposo – alimentazione”. Il ricovero diventava dunque soprattutto una misura di isolamento per contenere il rischio di contagio nella comunità. La lotta antitubercolare venne portata avanti principalmente secondo due indirizzi: il primo compito era quello di formare i medici specializzati; il secondo obiettivo quello di costruire sanatori: “La legge dell’assicurazione obbligatoria è ormai un fatto compiuto […] Alla Cassa Nazionale è stata imposta la costruzione di ben ventimila posti letto”.
La Cassa Nazionale per le assicurazioni sociali avviò un ambizioso programma edilizio, inizialmente rivolto all’urgenza di costruire ospedali sanatoriali in pianura, capaci di accogliere i pazienti più gravi, e successivamente a un piano più articolato, destinato a creare strutture per le differenti tipologie di malattia e le diverse fasi del decorso.
Seguendo le direttive ministeriali, le strutture erano suddivise in cinque categorie:
1) Sanatori climatici propriamente detti;
2) Ospedali sanatoriali;
3) Reparti ospedalieri per tubercolotici;
4) Infermerie per tubercolotici;
5) Colonie post-sanatoriali.
Il tema degli ospedali sanatoriali venne affrontato sviluppando un modello architettonico moderno, funzionale, economico e riproducibile, che sintetizzasse le soluzioni tecniche e tipologiche elaborate nei precedenti settant’anni di sperimentazioni in Italia e in Europa. L’obiettivo era quello di superare l’immagine negativa del sanatorio come luogo di sofferenza, contagio e morte, immagine consueta nella mentalità comune nonostante gli sforzi di propaganda per correggerla. Morelli, affiancato dall’allora direttore sanitario della Cassa, Giannini, dispose l’organizzazione di un ufficio tecnico centrale, destinato a elaborare le tipologie architettoniche fondamentali per la costruzione degli ospedali sanatoriali. L’Ufficio Costruzioni Sanatoriali, diretto dall’ingegner M. Gobbi Belcredi e coordinato successivamente da Giocoli, includeva figure di rilievo come l’architetto e ingegnere Ugo Giovannozzi, responsabile dell’aspetto estetico, e l’ingegner Marcovigi, esperto tecnico. I progetti comprendevano una dettagliata descrizione degli edifici, delle camere, delle verande, delle finestre, insieme alle specifiche tecniche e le stime dei costi. Lo stile architettonico mirava a creare un’atmosfera familiare e rasserenante, fondamentale per il benessere dei pazienti.
Il modello di sanatorio tipo, elaborato attorno al 1930, servì da base per la costruzione di circa 60 ospedali-sanatori in meno di un decennio su tutto il territorio nazionale. Lo stesso schema fu utilizzato anche per i complessi più ambiziosi, come il Centro Forlanini di Roma (1934), destinato a ospitare la clinica tisiologica di Morelli; l’ospedale sanatoriale “Principe di Piemonte” di Napoli; l’ospedale di Garbagnate Milanese e il Villaggio Sanatoriale di Sondalo, in Valtellina, iniziato nel
1932 e completato dopo la guerra. La nuova e imponente rete sanatoriale ospiterà complessivamente 18.000 posti letto. “Ma la costruzione di sanatori” – dirà Morelli nel 1931 in una sua relazione sui dispensari al IV congresso nazionale di tisiologia di Bologna – “non è sufficiente: essi rappresentano soltanto la parte curativa che sarebbe vana se non fosse coadiuvata da quella preventiva. Solo l’unione della profilassi con la cura potrà dare i massimi vantaggi”.
Il Sanatorio di Chieti, insieme all’Ospedale sanatoriale Augusto Murri di Iesi e all’ospedale Luciani di Ascoli Piceno, rappresentano le uniche strutture sanitarie del Piano Nazionale di Regime sulla costa Adriatica nell’Italia centrale.
Chieti e il Nuovo Ospedale Sanatoriale
Nei primi anni del Novecento la città di Chieti vive un florido periodo di revisione urbanistica, in linea con lo spirito di regime, che ha comportato in alcuni casi anche lo sventramento di parti di città per la costruzione di nuovi edifici di uso pubblico. Uno dei casi più significativi riguarda gli interventi nel centrale quartiere San Paolo, in prossimità del Corso Marrucino: con l’apertura di via dei Vezi e la revisione dell’area dei tempietti romani si liberò lo spazio per la costruzione del palazzo del Genio Civile in viale Asinio Herio e dell’edificio ex biblioteca provinciale De Meis con la torre libraria, strutture in perfetto stile littorio. Altri edifici di questa fase sono altrettanto riconoscibili nel contesto cittadino, come l’Ospedale Civile Santissima Annunziata nel quartiere Sacro Cuore. Vengono progettati nuovi quartieri di espansione
urbana, come l’area a sud della Porta Sant’Andrea e della villa comunale. Il Piano di Ampliamento, predisposto dal Consiglio Comunale con la delibera 30 aprile 1919, prevedeva la costruzione di circa 60 villini. La stessa zona fu prescelta anche per l’edificazione di importanti edifici pubblici quali l’Asilo d’Infanzia “Principessa di Piemonte”, l’OND ed il
Villaggio dello Studente. In questo contesto si inserisce la realizzazione del nuovo Ospedale Sanatoriale.
Se fino ai primi anni ‘30 le costruzioni mantennero invariati i canoni ottocenteschi dell’edilizia pubblica umbertina, improntate al recupero di forme monumentali antiche, con apparati decorativi ridondanti che talvolta richiamano alcuni monumenti iconici della regione1, a partire dal 1933 1934 anche a Chieti cominciarono a essere realizzate opere dichiaratamente moderne, capaci di rivaleggiare con quelli delle grandi città italiane. Le figure professionali sostanzialmente non cambiarono, in quanto i protagonisti di questo periodo rimasero pressoché gli stessi della fase precedente; cambiò però il modo di intendere la città, sia dal punto di vista urbanistico, sia da quello più propriamente architettonico.
Il 24 agosto 1930 il quotidiano “Nuovo Abruzzo” riportava la notizia dell’acquisto di terreni per la costruzione di un nuovo grande ospedale e sanatorio provinciale. L’inaugurazione avvenne quasi sei anni dopo, nel maggio 1936, come attesta il Giornale Luce B0887, conservato nell’Archivio Storico dell’Istituto Luce Cinecittà di Roma (“Opere di regime per la sanità della razza. Il nuovo ospedale sanatoriale dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale, dotato di 232 posti letto, inaugurato dal presidente dell’istituto onorevole Biagi e dal Capo di Stato Maggiore della milizia, presenti le gerarchie locali.”). Il nuovo complesso nasceva in un’area allora extraurbana di Chieti, un lotto collinare di quasi quattro ettari di terreno, esposto sul versante orientale della città. Era stato accuratamente prescelto un contesto paesaggistico di notevole rilievo, naturalmente salubre, collocato in direzione della valle dell’Alento e verso il mare. Evidentemente il lotto
fu scelto proprio per il suo orientamento, che consentiva la realizzazione di una struttura ospedaliera con affacci delle verande esposte verso sud-est. Il legame con la storia della cura e della ricerca antitubercolare è ricordato fin dalla toponomastica della strada in cui si colloca l’ospedale sanatoriale, dedicata a Carlo Forlanini (1847 – 1918), fondatore dell’Istituto medico pneumatico (1877), dove inizio gli studi sulla cura della tbc polmonare, e ideatore del trattamento noto come ‘pneumotorace artificiale’ (1882). La dedicazione all’illustre medico dei viali di accesso ai maggiori sanatori è una consuetudine piuttosto frequente del tempo, come attestano l’ex-Sanatorio “Vittorio Emanuele” a Garbagnate Milanese e il Sanatorio “T. Borsalino” di Alessandria. Entrambi i complessi sono stati riconosciuti di interesse culturale ai sensi del Codice dei beni Culturali e del Paesaggio, così come l’ex Sanatorio di Montecatone ad Imola, l’ex Sanatorio Grassi di Como, il Complesso sanatoriale di Lecce, l’ex Sanatorio Dubini di Caltanissetta, l’ex Sanatorio Garbasso di Arezzo e l’ex Sanatorio Luzi di Sesto Fiorentino.
L’impostazione del complesso teatino ricalca perfettamente i progetti analoghi costruiti negli anni ’30, partendo dal modello fornito dall’Ufficio Costruzioni Sanatoriali. All’interno del perimetro recintato vi sono: un corpo d’ingresso posto su via Carlo Forlanini; un corpo principale che contiene tutte le funzioni ospedaliere; un parco di circa due ettari, parte integrante del progetto di realizzazione della struttura sanitaria.
Il CORPO D’INGRESSO è costituito da un volume organico prettamente rettangolare di due livelli fuori terra e terminazione a curva verso la strada di accesso, che riecheggia alcuni villini del periodo in Italia, o strutture ricettive come le colonie marine. Costruito su un piccolo basamento in muratura, utile a raccordare il leggero declivio verso la strada principale, il manufatto fiancheggia il viale di accesso; all’edificio si raccorda la recinzione, comprensiva di cancello pedonale e carrabile, ancora originali, decorati con motivi che richiamano le due lanterne poste in testa ai pilastri d’ingresso.
Il piano terra è più ampio del primo livello, che presenta una soprelevazione esclusivamente nella porzione centrale, con il
risultato di dare vita ad un’ampia terrazza. Questa circonda il primo livello estradossato ed è protetta da una ringhiera a correnti orizzontali nella porzione circolare verso l’ingresso e da un parapetto in muratura piena su retro, in modo da rafforzare il gioco di pieni e vuoti tipici della composizione dell’architettura razionalista. Anche il volume estradossato ha copertura piana e porta a coronamento un piccolo parapetto in muratura piena. Il corpo semicircolare su fronte principale, invece, alleggerito da tre ampi luci con infissi in ferro, è accentuato dall’abbondante aggetto della terrazza sovrastante che, oltre a proteggere, seguendone la forma crea un marcato effetto luministico. I prospetti sono semplici e le aperture presenti risultano arricchite da sobri elementi verticali, leggermente incassati in finto travertino, così come, tipicamente, i piani sono scanditi da semplici marcapiani orizzontali, parimenti in finto travertino, che definiscono i volumi. Degno di nota è il motivo architettonico presente sul prospetto di via Forlanini, che rappresenta un’originale rivisitazione del classicismo
d’ispirazione “mediterranea”, nel solco della progressiva semplificazione del linguaggio architettonico, peculiare nel periodo tra le due Guerre Mondiali; su entrambi i piani le tre bucature di diverse ampiezze sono raggruppate dal davanzale sporgente in un unico elemento, secondo il ritmo A/c/b/c/A, laddove negli intervalli centrali le lesene delle finestre contigue si fondono a formare plastiche nicchie, con un interessante effetto chiaroscurale.
Il CORPO PRINCIPALE ricalca perfettamente lo schema previsto per tale tipologia architettonica: un edificio monoblocco di cinque livelli, di cui uno seminterrato, con schema planimetrico a “T” a due bracci, certamente preso in prestito da manuali di progettazione architettonica, molto diffusi in quel periodo; i bracci sono corrispondenti ai reparti di degenza maschile e femminile, simmetrici rispetto alla spina centrale di servizi comuni, in questo caso più bassa di un piano. Le camere sono comprese tra il corridoio di servizio del braccio corto e le verande presenti sul lato sud. Le testate sono leggermente aggettanti in modo da proteggere le fronti dal vento. Le camere, a 4 o 6 letti, presentano un sistema di collegamento flessibile con la veranda di cura. L’opera si avvicina molto di più alle grandi strutture pubbliche ricettive realizzate anche fuori dell’Abruzzo e normalizzate nel regime fascista. Nonostante le poche notizie a riguardo, è certa la partecipazione dell’ingegner Giuseppe Florio nella direzione dei lavori, il cui importo era pari a lire 6.000.000, come attestato da un certificato dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale dell’11 agosto 19343. L’edificio, dalla sobria classicità come si nota dalla simmetria delle singole fronti – caratterizzate da file regolari di aperture –, nonché dall’utilizzo corretto armonico di cornicioni, sporgenze, riquadri, rientra nelle ambizioni di ordine, semplicità e rappresentatività dell’architettura fascista.
La parte basamentale, costituita dai primi due livelli, raccorda il leggero declivio del lotto e contiene le funzioni tecniche, compresa una falegnameria al piano più basso (con accesso di servizio sul lato corto verso valle che consente anche l’avvicinamento dei mezzi) e gli ambulatori al livello più alto, complanare con il piano leggermente rialzato della stecca lunga dei servizi. Il piano seminterrato del blocco lungo contiene i servizi di ristorazione, la lavanderia e i magazzini, mentre al livello rialzato è presente un ampio spazio che occupa l’intera larghezza della stecca che ospitava la sala cinema, organizzata con ampie vetrate scorrevoli per un uso flessibile dello spazio. Sui prospetti il basamento è riconoscibile per la semplice finitura ad intonaco chiaro, che ripropone un finto travertino e per la quasi totale assenza di cornici alle aperture, che in ogni caso, pur allineandosi alle finestre superiori, non sono caratterizzate da alcun vezzo decorativo. Gli ulteriori tre
livelli ospitano i reparti di degenza, con una cappella primo livello, e si distinguono dal basamento sotto diversi profili: le finestre risultano inquadrate da leggere cornici che inglobano in colonna due ordini di aperture, fornendo notevole slancio e monumentalità con un semplice accorgimento, mentre l’ultimo livello è più compresso e leggermente indietreggiato, al di sopra di una cornice marcapiano più lavorata rispetto a quella più semplice del basamento; le finestre sui prospetti verso l’ingresso sono in legno con avvolgibili, mentre le aperture sulle terrazze presentano una tecnologia e una configurazione più complessa e funzionale; la superficie di finitura dell’intonaco è liscia e di toni assai più scuri rispetto alla base, quest’ultima tendenzialmente bianca a richiamare la pietra; sul braccio corto, sempre in posizione simmetrica, lunghi parapetti in ferro a proteggere i balconi, che giocano nella creazione di pieni e vuoti sulle superfici lisce; la testata del
braccio lungo, l’unica visibile dal viale d’ingresso, presenta un volume basso di un solo livello, e finestre decorate con cornici ad arco, le uniche nell’intero l’edificio. La struttura presenta due ingressi per il pubblico: l’uno sulla testata del braccio lungo, verso il viale, che accedeva agli spazi destinati agli ambulatori, e l’altro monumentale sul lato del braccio lungo, in affaccio sulla piazza d’ingresso; il portale è anch’esso inquadrato da una monumentale e sobria cornice in finto travertino, che ingloba anche la finestra al di sopra, decorato da un motivo vegetale floreale al centro; il portone è in legno decorato con motivi sobri, protetto da una cancello in ferro a motivi geometrici. La distribuzione verticale è garantita da due scalinate perfettamente simmetriche poste al nodo tra il braccio lungo e il braccio corto; in prospetto riconnettono i due prospetti ortogonali tra loro con una superficie a 45 gradi interamente vetrata, facendo in modo che si crei uno spazio triangolare che contiene la scala. I due corpi scala rappresentano forse l’elemento architettonico più interessante e affascinante dell’edificio; infatti, lo spazio triangolare interno che si crea fa sì che la sala sia impostata su una pianta a triangolo isoscele, smussata verso l’ingresso ai reparti, su cui si impostano diverse rampe per piano con relativi pianerottoli, con la conseguenza che il vano interno sia di forma esagonale, disegnato da una ringhiera in ferro a quattro correnti che sale a spirale fasciando il vuoto per sei livelli. Uno spettacolo di forme e luci, disegnato con rigore, sobrietà e qualità architettonica, ma perfettamente funzionale e in linea con i principi costruttivi dettati dal Morelli. Altro elemento degno di attenzione è il sofisticato sistema di serramenti in ferro e legno delle stanze di degenza presente sulle terrazze a sud, in grado di disporre la chiusura vetrata a filo della facciata principale, configurando una porta di veranda vetrata da usare nel corso della stagione fredda. Le vetrate presentano anche dei sistemi di areazione a farfalla, per cui due piccoli triangoli vetrati posti in modo simmetrico e imperniati sul montante centrale della finestra ruotano verso l’alto con un sistema a corda; le porte presentano lo stesso sistema, in modo tale che anche con porte e finestre chiuse fosse possibile creare un leggero flusso di aria. Le verande, inoltre, presentano un’affascinante soluzione di movimentazione degli ampi pannelli mobili, che scorrevano orizzontalmente e venivano manovrati elettricamente, consentendo riparo dal sole e dalle intemperie. La copertura è piana e fruibile; dal nodo centrale, infatti, si allungano due porticati simmetrici sorretti da pilastrini sottili e un solaio di pochi centimetri, un elemento leggero che consentiva di poter godere dell’aria, ma al riparo dal sole. Le due tettoie nel corso degli anni sono state tamponate sul lato verso il corpo principale, probabilmente per riparare lo spazio dal vento settentrionale senza chiudere il fronte a sud.
Il PARCO. Come di prassi per gli ospedali sanatoriali sul territorio nazionale, anche il complesso teatino è dotato di un generoso spazio verde ancora perfettamente conservato. Nei sanatori il proposito dell’isolamento veniva perseguito non soltanto mediante la collocazione periferica, ma anche garantendo all’istituto una rilevante dotazione di spazi adibiti a parco, che dovevano avere una triplice funzione: mantenere i malati a distanza, anche visiva, dai sani, garantendo la più elementare forma di controllo del contagio; offrire loro itinerari di passeggio; purificare l’aria attorno al sanatorio. Questi
spazi di parco, che nelle foto d’epoca si intuiscono appena nel disegno delle aiuole e negli esili alberelli da poco impiantati, hanno oggi la consistenza di veri e propri parchi urbani, che spiccano nella visione aerea satellitare come veri e propri polmoni verdi, in posizione ormai semicentrale nel tessuto urbano incrementato delle città; e pongono, accanto al tema della tutela degli immobili, un secondo e fondamentale tema di riuso e tutela delle aree verdi, lasciando intuire la possibilità di un approccio integrato a scala urbana.
Il parco del sanatorio teatino si sviluppa, a partire dal cancello d’ingresso posto su via Carlo Forlanini, da un lungo viale alberato che porta direttamente all’ingresso monumentale sulla testata del braccio lungo, per formare sul lato est dello stesso braccio lungo, in corrispondenza del secondo ingresso monumentale, un’ampia terrazza sopraelevata, sostenuta da muri di sostruzione in laterizio dagli angoli arrotondati. Il parco, definito sul lato di via Forlanini (nord-est) da un muro di
sostruzione in laterizio e sugli altri tre lati, sud-est, sud-ovest e nord-ovest, da alti muri parimenti in laterizio, cadenzati questi da pilastri quadrati, circonda completamente l’imponente struttura sanitaria, occultandola alla vista dalle strade pubbliche.
All’interno del parco si sviluppano sentieri, che permettono di percorrere l’intera area e consentono la visione di notevoli scorci pittoreschi, attraverso la folta vegetazione: sia nell’area dell’ex sanatorio, sia nelle zone circostanti, grazie alla notevole diversità di quota fra i lati nord-est (via C. Forlanini) e sud-ovest (via E. Bruno e G. Viola). Che si tratti di percorsi studiati e progettati ne sono testimonianza i caratteristici lampioni, che si rilevano in diversi punti strategici del parco a partire dal viale d’ingresso, dalla caratteristica forma di “bocciolo” e decorati da classiche modanature e da piccoli festoni.
Pur rilevando la presenza di diversi locali tecnici, questi ultimi, di dimensioni contenute, non alterano nel complesso l’immagine del parco; è da rilevare, altresì, sull’angolo ovest dell’area boscata, la presenza di una serra abbandonata (ora in pessime condizioni) e di vasche laterizie per la coltura di nuove piante, a testimoniare ancora una volta l’enorme importanza dell’elemento naturale per il complesso ospedaliero.
Il parco, infine, per quanto è stato possibile rilevare in via preliminare, è caratterizzato da una enorme varietà di essenze arboree di pregio, a partire dalla grande quantità di pini (pinus pinea), presenti sia lungo il viale d’ingresso, ma anche distribuiti uniformemente in tutta l’area verde, che determinano l’immagine complessiva dell’area dall’esterno.
Tuttavia, sono presenti in quantità variabili altre conifere quali i grandi cedri (del Libano e dell’Himalaya), tuie, cipressi e abeti. Non mancano le latifoglie, bene inserite lungo i percorsi, come ad esempio i numerosi esemplari di leccio e poi faggi, platani, tigli e aceri, ma anche ligustri, allori, pitosfori, prunus, glicini, e diverse specie arbustive di sottobosco e non, come la rosa canina, il rosmarino, l’oleandro ed altre. In prossimità della struttura sanitaria si rilevano altresì piante più propriamente
ornamentali o esotiche, quali la grande magnolia grandiflora, in adiacenza alla terrazza antistante l’ingresso monumentale, e gli esemplari di diverse palme (canariensis e trachicarpus). A causa dell’abbandono purtroppo sono stati individuati anche alcuni esemplari di specie arboree infestanti, quali le robinie pseudoacacie e gli ailanti. L’intero complesso può essere considerato ancora oggi attuale, nella sua composizione assolutamente funzionale;
l’architettura è sobria ma assolutamente raffinata, scarna di decori, ma con puntuali episodi che rendono il progetto assolutamente in linea con i principi dell’architettura tipologica dei sanatori, con l’obiettivo di superare l’immagine nefasta degli ospedali e progettare luoghi di degenza rassicuranti e piacevoli da vivere; tra gli elementi puntuali degni di nota sono la grande vetrata a soffitto posta all’ingresso del padiglione di testata a nord, ancora ben conservato, oppure i comignoli in terracotta posti a ritmo costante sui parapetti della terrazza di copertura; le griglie di areazione in laterizio poste nel sottofinestra per l’areazione dei servizi igienici, così come le lampade per l’illuminazione esterna, stilisticamente legate al complesso architettonico. Dal punto di vista prettamente stilistico si riconosce un distacco del linguaggio architettonico dai motivi eclettici e fondamentalmente regionalisti, ancora presenti nelle costruzioni degli anni Venti teatine, verso un razionalismo nazionalista sempre più marcato e non privo di episodi raffinati. Con il debellamento della malattia tubercolotica l’ospedale sanatoriale venne trasformato in Ospedale San Camillo De Lellis, specializzato nella cura delle malattie infettive. Con la riforma sanitaria Legge 833/1978, il Presidio San Camillo perse la sua autonomia, confluendo nel complesso degli “Ospedali Riuniti Santissima Annunziata”, e dagli anni ‘80 fu destinato a Clinica Universitaria di Cardiologia e Cardiochirurgia, con le relative Terapie Intensive. Venne quindi chiuso il 31 agosto 2007, dopo il trasferimento dei reparti di cardiologia al nuovo Policlinico di Colle dell’Ara in via dei Vestini.
Il complesso, ancora di proprietà dell’Azienda Sanitaria Locale Lanciano-Vasto-Chieti, ad oggi si presenta in stato di abbandono, ma assolutamente ben conservato in tutte le sue componenti identitarie, poiché è rimasto in funzione fino ad anni recenti. Ad esclusione di alcune sostituzioni di infissi con dei nuovi in alluminio all’intero dei reparti (ma non in tutti i piani), ogni singolo elemento architettonico risulta assolutamente riconoscibile, financo gli armadietti con le chiavi nelle stanze e gli armadi a muro lungo i corridoi.
Considerazioni finali
Si ritiene che il complesso “Ex Ospedale Sanatoriale di Chieti”, comprensivo del parco e degli immobili ivi presenti,
rappresenti in generale, per le motivazioni sopra esplicitate, non solo un notevole brano di architettura del Ventennio, ma
anche un significativo esempio della storia dell’evoluzione del sistema sanitario della nazione, in termini di politiche
assistenziali e di welfare. Il complesso del sanatorio nondimeno ne è l’unico esempio in Abruzzo, sede evidentemente scelta
dal regime per l’attuazione di progetti su scala nazionale.
Più nello specifico il corpo principale e il corpo d’ingresso rappresentano ancora, risultando ben conservati e perfettamente
riconoscibili, esempi peculiari dell’architettura del periodo fascista in Italia: questi tuttavia non sono caratterizzati, come
altri monumenti della medesima fase, da un linguaggio locale e regionalistico, ma piuttosto si innestano in un più complesso
processo di creazione di una rete ospedaliera nazionale; il parco, elemento costituente del progetto sanatoriale, nella sua
attuale configurazione preserva ancora il carattere naturale e paesaggistico del contesto extraurbano della città, elemento questo che protegge, valorizza e permette la conservazione dell’identità del luogo. Pertanto, è parere di questa Soprintendenza che debba essere riconosciuto di interesse culturale ai sensi dell’art.10 co.1 del
D.lgs 42/2004 l’intero complesso costituito, come sopra descritto, dal parco (area esterna pertinenziale) censita al C.T. con
la particella 377 del Foglio 36 del Comune di Chieti (CH) e dai corpi di fabbrica individuati e censiti al Catasto Fabbricati
con la particella 377 Subalterno unico n. 10 del Foglio 36 del Comune di Chieti (CH), il tutto è meglio rappresentato ed
evidenziato nella planimetria dell’estratto di mappa catastale allegato attraverso una linea rossa di perimetrazione dell’intero complesso.
Si propone, pertanto, per le motivazioni sopra esplicitate, di verificare con esito positivo l’interesse culturale dell’intero complesso dell’ex Ospedale Sanatoriale, quale bene culturale, testimonianza materiale della civiltà e lascito da conservare e tramandare, per ragioni identitarie e di cultura, alle generazioni future, riconoscendovi un interesse particolarmente importante anche in connessione alla storia delle istituzioni pubbliche.
Bibliografia
D. Del Curto, La costruzione della rete sanatoriale italiana, in L. Bonesio, D. Del Curto, Il Villaggio Morelli. Identità
paesaggistica e patrimonio monumentale, (“Terra e mare”. Collana di Geofilosofia diretta da L. Bonesio e C. Resta),
Messina, Università degli Studi, Dipartimento di Filosofia, 2011.
Tradizione e Modernità. L’architettura del ventennio fascista in Chieti e Provincia, a cura di L. Antenucci e R. Giannantonio, Chieti, 2003
Sitografia
https://patrimonio.archivioluce.com/luceweb/detail/IL5000095502/2/il-nuovo-ospedale-sanatoriale.html&jsonVal=
http://vincoliinrete.beniculturali.it/VincoliInRete/vir/utente/login
https://www.torinoscienza.it/personaggi/carlo-forlanini
https://icharta.com/1937-chieti-nuovo-ospedale-civile-arch-camillo-guerra-ing-giuseppe-florio-foto/
https://www.festivaletteratura.it/it/racconti/la-tubercolosi-una-lunga-storia
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